L’anno 131 a.C. ha segnato per Altino e per la 
								regione d’attorno l’inizio di una nuova 
								primavera anche nel settore agroalimentare. Fino 
								ad allora c’erano in terra veneta una cultura e 
								una tradizione alimentare che venivano da 
								lontano e che si erano arricchite nel corso del 
								tempo grazie allo sviluppo delle conoscenze e 
								della civiltà e da numerosi utili rapporti 
								intessuti con gli Etruschi a sud e, più tardi, 
								coi Celti a nord. Come ha scritto Tolomeo e come 
								hanno comprovato le scoperte archeologiche, 
								Altino era nel primo millennio a.C. importante 
								centro paleoveneto e in città c’era un continuo 
								fervore di attività e iniziative.  
								La cucina era ricca e varia e, come attestano 
								residui faunistici e botanici ritrovati in vari 
								centri paleoveneti, nelle case del tempo si 
								preparavano piatti a base di erbe spontanee di 
								campo, uova, carne di pecora, agnello, bue, 
								maiale, cavallo, uccelli e ancora molluschi, 
								crostacei e pesci e poi grano e altri cereali, 
								noci, nocciole e altra frutta. Sono stati 
								trovati negli scavi anche degli ami uncinati, 
								segno che l’attività della pesca era molto 
								diffusa e il pesce di fiume, di laguna e di mare 
								faceva spesso la sua comparsa sulle tavole della 
								città paleoveneta posta proprio sulla gronda 
								della laguna.  
								Come afferma Marco Valerio Marziale (40-102 
								d.C.) in un suo epigramma: “In 
								
								Venetis sint lauta licet convivia terris – 
								principium cenae gobius esse solet”, 
								cioè: “Nella terra dei Veneti (e quindi 
								soprattutto ad Altino che si trova sulla sponda 
								della laguna) anche nei pranzi più ricchi si 
								suole servire per primi i gò” (Xenia, 88).
								A sua volta Plinio il Vecchio (27-79 d.C.) non 
								manca di sottolineare la ricchezza del pesce 
								altoadriatico che si trova al mercato di Altino: 
								“...hi 
								autem… Altini… petunculi, purpurae, negride, 
								pina, pinoteres, rhine, quem squatum vocamus, 
								rhombus, scarus, principalis hodie, solea, 
								sargus, squilla, sarda, scomber, …”, 
								cioè: “ si trovano ad Altino… i pettini piccoli 
								(canestrelli), le porpore, le negride, la pinna, 
								il pinoteres, le rhine, che noi chiamiamo 
								squadro, il rombo, lo scaro, oggi il principe 
								dei pesci, la sogliola, il sargo, la squilla, la 
								sarda, lo sgombro, …” (N.H., 32,150-151). 
								
								
								Alle spalle della città vi era una intensa 
								attività agricolo-pastorale e per quanto 
								riguarda gli ovini abbiamo ancora la 
								testimonianza di Marziale: “Velleribus 
								primis  Apulia, Parma  secundis nobilis: Altinum  
								terzia audat l ovis” 
								cioè: “Prima la Puglia, poi Parma, quindi 
								Altino: ecco le lane migliori” (Apophoreta, 
								155).
								Ed anche in seguito la lana delle pecore di 
								Altino è molto pregiata e ricercata, come 
								conferma lo stesso Diocleziano, nell’Edictum de 
								pretiis (Editto sui prezzi) del 301 d.C. E se la 
								lana era così famosa fino a Roma doveva per 
								forza esserci abbondanza di pecore. Columella ci 
								assicura poi che le piccole vacche di Altino 
								erano molto lattifere: “Melius 
								etiam in hos usus Altinate vaccae probantur, 
								quas eius regionis incolae cevas appellant. Eae 
								sunt humilis staturae, lactis abundantes, 
								propter quod remotis earum fetibus generosum 
								pecur alienis educatur uberibus”, 
								cioè: “Ma per l’allattamento dei vitelli sono 
								raccomandate le vacche di Altino che gli 
								abitanti di quella regione chiamano ceve. Sono 
								di bassa statura, abbondanti di latte; 
								allontanati i loro vitelli, le bestie di razza 
								si allevano alle poppe straniere” (VI, 24,4-5).
								Non mancava l’attività venatoria e Grazio 
								“Falisco”, poeta dell’età augustea, 
								contemporaneo di Ovidio, nell’opera Cynegetica 
								dedicata all’arte della caccia, cita le ginestre 
								di Altino, i cui steli, afferma, sono ottimi per 
								fabbricare piccole frecce adatte appunto alla 
								caccia. C’era inoltre un intenso commercio che 
								si sviluppava lungo i corsi d’acqua e in laguna, 
								con scambi di prodotti fra città e villaggi, 
								anche molto lontani fra loro.
								Merita qui ricordare che a quei tempi 
								l’agricoltura e l’allevamento del bestiame erano 
								di pertinenza degli uomini, mentre le donne 
								avevano il compito di raccogliere i tanti tipi 
								di erbe, officiali e alimentari, che 
								caratterizzavano il cibo e la farmacopea del 
								tempo, macinare i cereali, setacciare e 
								impastare la farina trasformandola in pane, 
								pasta e dolci; le donne dovevano inoltre 
								allevare gli animali domestici, come il maiale e 
								soprattutto avevano il compito di preparare il 
								cibo quotidiano.
								Quando arrivarono i Romani per costruire la via 
								Annia trovarono una città sicuramente diversa 
								dalle loro, ma piena di vita, con un buon tenore 
								alimentare, grazie anche, come abbiamo visto, 
								alla facilità di produrre e reperire le materie 
								prime.
								
								
								Dopo il 131 a.C., quando si hanno le prime 
								centuriazioni, aumenta nei residenti l’interesse 
								per l’agricoltura e l’allevamento del bestiame: 
								cresce il numero dei bovini necessari per il 
								lavoro agricolo; nei campi ben coltivati si 
								semina e si raccoglie il grano; si coltivano 
								negli orti di casa l’insalata e altri ortaggi, 
								fra cui gli asparagi; si impiantano i primi 
								vigneti.
								I Veneti assorbono senza troppa fatica gli 
								apporti dei nuovi arrivati anche perché scoprono 
								subito che così facendo arricchiscono la propria 
								tavola dove ora compaiono del buon pane 
								lievitato, vino bianco e rosso, minestre 
								vegetali, paste fritte, pesce e carne alla 
								brace, insaccati di carne, specie di maiale, 
								molto formaggio, lumache saporite, insalate 
								miste, ecc.. Si tratta, in sostanza, di quelle 
								preparazioni che, più tardi, saranno raccolte in 
								un ricettario attribuito, nella tarda latinità, 
								al gastronomo Marco Gavio Apicio.
								Sul finire del primo secolo a.C. e in quelli 
								seguenti Altino si abbellisce di palazzi, 
								monumenti e piazze, tanto che Marziale esclama: 
								“Aemula 
								Baianis Altini litura villis”, 
								cioè: “Rive di Altino che rivaleggiate con le 
								ville di Baia” (4, 25, 1) e allorquando Druso dà 
								il via alla costruzione della strada diretta a 
								nord, oltre le Alpi, la conquistata civiltà 
								della tavola si espande verso l’interno, 
								propagandosi velocemente nella pianura, verso 
								Tarvisium, verso Opitergium e fin nelle terre 
								oltre il fiume Piave, negli ondulati  colli 
								ricoperti di boschi a ridosso delle Prealpi.
								Anche in queste zone che appaiono allora brulle 
								e selvagge ci sono villaggi paleoveneti ove vive 
								una popolazione di antichissima origine con nel 
								sangue cromosomi euganei e, più recentemente, 
								anche celtici.
								I secoli passano e Altino, dopo l’arrivo degli 
								Unni e la fuga degli abitanti verso Torcello, 
								viene avvolta dal silenzio e dall’oblio. Ma le 
								conquiste e le esperienze maturate negli anni 
								del grande fervore non scompaiono del tutto. 
								Dell’Annia e della Claudia  Augusta  restano qua 
								e là  pochi segni, ma  la civiltà  che s’era  
								sviluppata  lungo gli antichi itinerari, le 
								tradizioni che da Altino s’erano diffuse verso 
								la Venezia Orientale, verso la Sinistra Piave, 
								il Feltrino, le vallate alpine e, più in là, 
								verso la Baviera e la Germania non sono andate 
								perdute.
								Nuove strade sono state costruite, reali e anche 
								virtuali, come le “Strade dei vini”; non c’è più 
								la Claudia Augusta ma ci sono la Pontebbana e 
								l’Alemagna ed attorno una rete viaria che porta 
								per più itinerari verso le valli alpine e oltre 
								le Alpi, così come non c’è più la via Annia ed 
								al suo posto c’è la statale Triestina che va 
								verso Concordia, Aquileia e Trieste.
								E, guardando dall’alto, si vedono ancor oggi 
								nitidissimi gli antichi iugeri delle 
								centurazioni di Altino, di Treviso, di Ceneda, 
								di Oderzo, di Concordia, di Aquileia e la terra 
								è coltivata a cereali, a viti e a prativi, 
								proprio come un tempo, con i resti dell’antica 
								Silva Magna che i coloni romani e veneti 
								costrinsero in aree sempre più ridotte.
								Attorno alle case coloniche ci sono orti che 
								d’estate sono esuberanti d’ortaggi, aie popolate 
								d’animali domestici e ci sono ancora le stalle, 
								ridotte di numero ma arricchite d’animali 
								bovini; si vedono dall’autunno alla primavera 
								innumeri greggi di pecore e capre brucare l’erba 
								residua dei prati e lungo prode e gli argini dei 
								corsi d’acqua; ci sono ampie coltivazioni di 
								frumento, di mais, di barbabietole da zucchero; 
								ci sono vigneti curatissimi e, verso i primi 
								rialzi pedemontani, si incontrano boschi ancora 
								folti d’essenze antiche, rifugio a molte specie 
								d’uccelli e animali selvatici e si trovano 
								diverse varietà di funghi, chiodini, porcini, 
								cantarelli e altri ancora.
								Lasciata la gronda lagunare, appena più a nord 
								di Altino, tra Roncade, Casale sul Sile, Casier 
								e Treviso si vedono nel tardo autunno e 
								nell’inverno le vaste coltivazioni del radicchio 
								rosso di Treviso, una delizia gastronomica dolce 
								e croccante che nobilita la cucina invernale e 
								soprattutto natalizia e che i trevigiani fanno 
								giungere nelle tavole più prestigiose del mondo.
								
								
								E attorno a questa aristocratica cicoria c’è, da 
								dicembre a febbraio, un susseguirsi di feste, 
								esposizioni e rassegne gastronomiche capaci di 
								richiamare buongustai d’ogni parte.
								La coltivazione del radicchio rosso, che subisce 
								una straordinaria operazione di forzatura e 
								imbianchimento lontano dalla luce del sole, 
								risale alla metà dell’Ottocento e la prima 
								mostra-mercato di questo prezioso dono 
								dell’inverno si è tenuta sul finire di quel 
								secolo sotto la loggia del Palazzo dei Trecento 
								a Treviso e da allora ogni anno la tradizione si 
								rinnova e si arricchisce con crescente successo 
								e soddisfazione per produttori e buongustai. 
								Conclusa la stagione del radicchio, quando la 
								primavera regala i primi dolci tepori, ecco 
								svilupparsi in queste terre e soprattutto lungo 
								il Sile una nuova cucina, quella delle erbette 
								spontanee di campo e, tra aprile e maggio, 
								quella degli asparagi, soprattutto bianchi, che 
								hanno la loro capitale a Cimadolmo, a ridosso 
								del Piave.
								La cucina più attuale, lungo gli itinerari della 
								Via Annia e della Claudia Augusta, ma in tutta 
								la gronda veneziana, la bassa friulana e nella 
								Marca Trevigiana, è ancora felicemente legata ai 
								prodotti del territorio e al volgere delle 
								stagioni, in un susseguirsi di sensazioni 
								gustative, di piatti, di preparazioni che hanno 
								fatto di quest’area una delle più felici del 
								nostro paese.
								Ci sono ovunque ristoranti e trattorie, anche 
								nei più minuscoli borghi di campagna, dove 
								accanto a una eccellente bottiglia di vino si 
								trovano condensate le tradizioni sviluppatesi 
								nel corso dei secoli.
								La cucina del pesce, che caratterizza da sempre 
								la zona altinate, si ritrova anche all’interno, 
								portata nei secoli d’oro dalla Serenissima dal 
								patriziato veneziano che ovunque ha fatto 
								costruire dai maggiori architetti del tempo 
								delle splendide ville, per trascorrere lontano 
								dagli affari, dalla confusione e soprattutto 
								dall’afa di Venezia i mesi allegri e spensierati 
								della villeggiatura che si concludeva dopo la 
								vendemmia. 
								
								
								La cucina veneziana di pesce è senza dubbio una 
								delle più importanti e significative nel grande 
								quadro della gastronomia mondiale. Venezia ha 
								fatto scuola, anzi, la sua cucina è all’origine 
								della gastronomia occidentale, come quella 
								cinese è alla base della cucina orientale: due 
								scuole, due avventure gastronomiche che non 
								hanno uguali nel mondo.
								Da Altino dunque, risalendo verso le Alpi, si 
								incontrano ottime tavole imbandite, i cui piatti 
								nascono da tradizione millenaria, sostenuti da 
								una sapienza alimentata dai tanti apporti che 
								Venezia ha saputo cogliere per secoli nei suoi 
								rapporti col mondo, da Bisanzio a San Giovanni 
								d’Acri, dalla Tana alle foci del Don, laggiù nel 
								Mar d’Azov, al Nord Africa, dalla Grecia e dalle 
								sue tante isole alla Spagna e fino alle isole 
								Lofoten e ai porti della Lega Anseatica, dove 
								andava ad acquistare, a partire dalla seconda 
								metà del Cinquecento, quello stoccafisso che i 
								veneziani hanno sempre chiamato baccalà e che a 
								Venezia e nel Veneto è stato sempre preparato in 
								modo a dir poco insuperabile. 
								Per comprendere il valore della cucina di questo 
								territorio basterebbe citare (fra i tanti 
								raccontati da Giuseppe Maffioli nei suoi libri:
								
								
								La cucina veneziana, 
								1982 e, 
								
								La cucina Trevigiana, 
								1983, entrambi editi da Franco Muzzio, Padova) 
								pochi piatti: la “sopa coàda” di Treviso e Motta 
								di Livenza, di origine rinascimentale; la pasta 
								e fagioli, la vasta gamma dei risotti veneziani 
								e trevigiani, uno per ogni giorno dell’anno; i 
								“brodetti” di pesce  alla moda  dei pescatori; 
								gli “scampi in bùsera” di origine dalmatica; le 
								“sarde in saòr” presenti fin da quando Venezia 
								conquistò, nel 1205, Costantinopoli, la 
								splendida capitale dell’Impero Romano d’Oriente; 
								le fritturine croccanti; l’anatra bollita; il 
								cappone natalizio e ancora la  pinza epifanica, 
								la “fugassa” pasquale, i “zaletti” e i 
								“baìocoli” veneziani; la “fregolotta”, la "zonclada" 
								e il “tiramisù” trevigiani ecc..
								Lungo l’antico itinerario segnato da Druso, 
								nella vasta pianura che s’alza via via verso i 
								monti, nonostante la civiltà contadina abbia 
								lasciato posto a quella industriale e 
								postindustriale, si trovano ancora numerose le 
								vecchie case coloniche venete col portico dagli 
								archi a pieno sesto e attorno aie festose, 
								maiali che arricchiscono le tavole invernali, 
								orti ben curati, vigne e frutteti, dove la più 
								moderna tecnologia produttiva ha saputo 
								riportare la terra alla pulizia d’un tempo, 
								eliminando in tutto o quasi quei prodotti 
								inquinanti che hanno caratterizzato 
								l’agricoltura nei primi decenni dell’ultimo 
								dopoguerra.
								Superato il Piave, dove l’antica strada si 
								biforcava, presso la silente chiesetta di S. 
								Anna, s’incontrano nuovi prodotti e nuove 
								tradizioni. Sulle colline del Quartier del Piave 
								e, appena di là del fiume, sull’antica ruga del 
								Montello, alti, sopra le vigne di Prosecco e di 
								Verdiso, s’espandono i vecchi alberi di castagno 
								che sul tardo autunno offrono abbondanti i loro 
								frutti ad animare non solo tante feste paesane, 
								ma una cucina solo apparentemente povera, 
								perché, attingendo con bravura ai prodotti del 
								bosco, alle erbe montane, ai funghi, alla frutta 
								invernale, sa donare una ricchezza di gusti e di 
								sapori capaci ancora una volta di affascinare il 
								buongustaio.
								E si incontra ancora l’antica tradizione romana 
								dello spiedo, simile in molto a quella diffusa 
								secoli dopo in tutta la Pedemontana dai 
								guerrieri di Alboino ed oggi, a cominciare da 
								Pieve di Soligo, la gente si raccoglie festosa 
								nelle piazze attorno agli enormi spiedi di carni 
								miste, ricollegandosi così con la storia e le 
								tradizioni più antiche. Nei prati collinari poi, 
								nelle stalle e nelle malghe d’alta montagna, 
								vivono mandrie di mucche e di vitelli e si 
								producono burri e formaggi: schiz, caciotta, 
								casatella, Morlacco, ma soprattutto Montasio e, 
								poco più il là Asiago e Vezzena, tutti di ottima 
								qualità, ed anche questi alimentano le 
								accoppiate gastronomiche che qui, ma non solo 
								qui, caratterizzano la cucina popolare: “polenta 
								e formaggio”, “polenta e funghi”, “polenta e 
								osèi”, “polenta e tòcio”, “polenta e figadèi”, 
								“polenta e pesce”, polenta e un sano bicchiere 
								di vino rosso, per celebrare la continuità di 
								una storia affascinante che, iniziata ad Altino 
								oltre due millenni or sono, ci si augura possa 
								continuare nel terzo millennio, per far 
								conoscere e godere alle generazioni che verranno 
								colori, profumi, gusti e sapori che 
								arricchiscono da sempre queste plaghe operose.
			
			menù